Ho iniziato a giocare a Rugby a 35 anni. Era un periodo difficile della mia vita, uscivo da una serie di casini sentimentali e lavorativi con strascici pesanti. Ero ingrassato 10 chili in 7 anni e, avendo sempre amato bere, passato molte sere a praticare il mio hobby nel modo meno intelligente, facendolo da solo a casa. Come al solito quando sei in difficoltà e hai bisogno non arrivano gli amici che ti aspetti, ma qualcuno che nemmeno pensavi potesse aiutarti. Un remake in chiave cinica del proverbio: Gli amici si vedono nel momento del bisogno, ma non sono quelli che ti aspettavi tu!
Mi chiama infatti questo ragazzo giovane con cui avevo fatto dei lavori e che mi aveva preso in simpatia come fratello maggiore un po’ scemo. Sa della mia passione del rugby e mi chiede se la sera successiva volevo allenarmi con una squadra tirata su al bar. Ovviamente dico di si. Ovviamente l’ho fatto, ma poi ho pensato: ma che cazzo faccio?
Ma di Giacomo mi sono sempre fidato, fin dalla prima volta che al telefono mi ha detto che avrebbe portato lui le luci per uno spettacolo e me le avrebbe fatte pagare poco. Ho scoperto solo 10 giorni dopo che lui non aveva luci e non faceva nemmeno il tecnico per una service musicale di Milano.
Tornando al Rugby.
Il primo allenamento eravamo solo noi 10 e ci siamo allenati giusto per capire cosa fosse la palla ovale, come si passava e cosa significa placcare.
Il secondo ci siamo uniti ad una squadra già esistente, che giocava da anni insieme, con giocatori già esperti che erano molto più giovani di me, molto più forti e molto più competenti in materia di rugby.
Insomma, un disastro assicurato.
Dopo un po’ di corsa e non mi ricordo cos’altro l’allenatore dice, o meglio urla velocemente:
File da 3 sui conetti gialli, 1 sul conetto blu e 1 su quello rosso. Giochiamo un 3 contro 1 poi di nuovo in continuità un altro 3 contro 1 con sostegno. I difensori rimangono fissi fino al mio segnale.
Queste sono state le sue parole. Nella mia testa invece ho sentito: Piripiripiripiripiripi e non ho capito niente.
Mi metto quindi in fondo al gruppo e capisco guardando cosa devo fare. Non chiedo nulla a nessuno. Ho sempre odiato chi non capisce le istruzioni di un esercizio e non voglio passare per quello.
Faccio quello che posso. Sbaglio ovviamente. Finisce l’esercizio e tutti gli altri che si succedono suonano uguali. L’allenatore da la consegna. Io sento Piripiripiripiripiripi e non capisco niente.
Arriviamo alla partita finale. Siamo in più di 30 e quindi si gioca. Se prima era solo una confusione in piccolo gruppo adesso diventa una confusione in un gruppo enorme. Come entrare in un enorme centrifuga con gente grossa che ti corre addosso. La palla non so nemmeno se fosse stata introdotta nel gioco. Per me era gente che correva, parlava, mi diceva di fare cose e io sentivo Piripiripiripiripiripi e non capivo niente.
La notte, dopo il terzo e quarto tempo, finito l’effetto dell’alcol la mia schiena e le mie spalle hanno presentato il conto.
Il giorno dopo avevo due possibilità. Quella di allenarmi in palestra, imparare bene cosa vuol dire un allenamento di rugby e presentarmi in campo la settimana dopo. La seconda non la ricordo ma suonava un po’ tipo: Piripiripiripiripiripi e non ho capito niente.
Ho preso il mio fisico marcio da 35enne un po’ alcolista e l’ho trasformato in un fisico decente da 40enne alcolista ma allenato. Ho cercato di capire i termini tecnici e mi sono iscritto subito al corso da allenatore. Non potevo chiedere sempre ai compagni cosa fosse un due contro uno o cosa fosse un blocco in touche. Ho fatto amicizia con alcuni allenatori e ho parlato con loro, fuori dagli allenamenti, di cosa significassero le cose.
Insomma, mi sono messo in gioco, ho alzato la sfida e ho dovuto per forza alzare le mie abilità. Sono entrato in quel flusso di energia per cui imparare era tanto più stimolante più le cose si complicavano. Non ho mai abbassato il livello. E ho sempre avuto la tanto amata sindrome dell’impostore, che mi ha permesso di continuare a studiare per essere sempre all’altezza e di sentirmi sempre umile perché ogni volta che salivo di livello c’era una sfida nuova. E stavo bene.
La morale di questa storia è semplice. Sentirsi inadeguato di fronte ad una sfida è una sensazione scomoda, ma è il punto di partenza per decidere quale strada vogliamo intraprendere. Puoi scegliere di imparare cose nuove, allenarti più di prima, studiare cose che nemmeno sapevi esistessero, fare corsi intriganti, leggere libri, parlare con gente più brava di te oppure puoi scegliere la seconda opzione, che nella tua testa deve suonare un po’ tipo: Piripiripiripiripiripi e non hai capito niente.
E la seconda morale è che se non riesci da solo, puoi anche chiedere aiuto. Ma non per evitare la fatica, ma per farne una più grande. La fatica di sembrare incomptente oppure di metterti in gioco con le tue competenze, per quello che sei. La fatica di chiedere cose banali oppure di informarti prima e chiedere cose intelligenti per migliorare. La fatica, in questo caso, è la fonte a cui si abbeverano le persone assetate di successo.
Una postilla romantica. Giacomo, con i miei compagni di quel gruppo di scappati di casa degli Zeengarians, mi ha salvato la vita. Mi ha dato la sensazione di far parte di qualcosa e mi ha messo in moto. In maniera involontaria ovvio. Ma come in maniera involontaria mi aveva lasciato senza luci per un evento importante nel mio precedente lavoro. Ma in entrambi i casi l’esserci stato ha lasciato il segno.
Ogni volta che penso a questa storia, alla mia vita degli ultimi 8 anni, penso a quel punto di partenza. Lo faccio perché senza quell’ovviamente si, non sarei qui adesso a scrivere questo libro. Senza quel mal di schiena fortissimo non sarei così in forma adesso. Senza le discussioni infinite al bar con Giacomo, Spa, Ago, Ste e gli altri sul rugby, su cosa significa quel movimento o quella scelta o quel nome di uno schema non mi sarei innamorato di nuovo dello sport. E non starei così bene.